Oretta Bizzarri

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All’inizio era il cinema, a casa mia non si parlava d’altro. Mio padre, mio fratello, il mio compagno, si occupavano e lavoravano tutti nel cinema.

La loro passione era la mia, ero certa, quello sarebbe stato il mio destino.

Nel frattempo gli studi letterari e, soprattutto la lettura, l’indagine, la scoperta del romanzo o del racconto in genere come strumento conoscitivo.

Una tesi sulle strutture narrative del romanzo intorno all’opera di Virginia Wolf, esperimenti di scrittura. Sì, avrei fatto la studiosa di letteratura, mi sarei occupata di scrittura, ero sicura ormai, era quella la mia strada. 

Finché non è arrivata la danza.

Una passione che ha occupato velocemente ogni spazio, l’incontro per cui io ero nata, e nessun rimpianto per non averla incontrata prima.

Tutti i linguaggi di cui mi ero nutrita precedentemente e soprattutto tutte le storie attraverso cui avevo “conosciuto” la vita sono confluiti in quest’ultimo linguaggio.

La danza è stata il tramite più efficace insieme alla voce e al teatro, per raccontare le cose del mondo. Insomma il “corpo in scena” era finalmente l’approdo.

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Era cominciato per divertimento con una classe di afrodanza. Percussioni, musica dal vivo, un trasporto istintivo, viscerale per il ritmo prima di ogni altra cosa. Il ritmo, che sarebbe stato anche in seguito il filo conduttore, il dono di cui dovevo essere grata. Quella semplicità delle strutture, quella organicità dei movimenti, quella ripetibilità immediata, mi avevano dato subito la possibilità di assaporare l’ebbrezza dell’abbandono del corpo nella danza, la sua potenzialità vitale.

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In seguito le forme più complesse della “modern dance”, la tecnica Graham, quella Cunningham, Limon e il balletto, tecniche appunto, discipline di cui assorbivo il fascino della complessità, il piacere assoluto nello sfidare i limiti del corpo e della mente, ma ancora poca consapevolezza.

Fu negli studi di composizione la scoperta fulminante.

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Quel piacere del corpo, quell’attenzione della mente, potevano essere ricerca profonda del sé. Il processo creativo poi, pur non potendo fare a meno di un corpo massimamente educato al movimento, poteva prescindere da codici prestabiliti.

La memoria del corpo sapeva, possedeva già un vocabolario interiore capace di incarnarsi in una forma. Il lavoro da fare era sviluppare la capacità di ascoltare, risvegliare quella memoria e rivelare attraverso forme e dinamiche originali, personali, uniche a volte, il racconto di universi interiori complessi. 

Il lavoro di Pina Bausch la rivelazione definitiva, ogni dubbio o incertezza sulla strada da percorrere era bandito.

In fondo nel suo lavoro si trattava sempre di storie di uomini e di donne e delle loro relazioni fondamentali e quotidiane con il mondo.

La stessa materia di cui erano impregnati il cinema e la letteratura, le mie prime passioni.

Ma la straordinaria e seducente modernità di quella nuova forma, rivelava possibilità espressive della danza per me insospettate, gettando nuova luce su quella materia.

E dopo un breve periodo come danzatrice, la decisione di fondare una mia compagnia, per guidare dei danzatori alla ricerca della radice narrativa del movimento, verso la passione della narrazione.

E il nome della compagnia, “Giuseppina von Bingen”, è il nome della protagonista di un piccolo racconto d’amore.

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Nel frattempo l’incontro con altre tecniche, (il release, la danza buto, lo studio sulla voce naturale), aveva aperto nuovi orizzonti alle potenzialità rappresentative del corpo.

Rivelatrici le componenti filosofiche alla base di tali tecniche.

Il pensiero, l’immaginazione, l’emozione, i sentimenti, insomma tutto ciò che è universo interiore, muove la materia, la trasforma, dà forma.

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Immaginare di emettere una nota alta, alza il palato molle; immaginare di muovere lo scheletro aziona i muscoli involontari. Se si ascolta insomma il mondo interiore, la materia del corpo “produce” una forma, rivelatrice di verità profonde.

A quel punto è cominciato il cammino verso la creazione  Creazione di storie di vita e di passioni, di donne soprattutto, 

Il linguaggio, quello riconducibile all’universo espressivo del teatrodanza con un apporto rilevante della parola, di un testo.

La passione per la scrittura si era riaffacciata, scovando però una nuova forma.

Ed è stata la musica ad ispirarla. La ricerca musicale è sempre stata accurata e meticolosa. Era la ricerca di una musica che contenesse già le storie che si agitavano sotterranee e aspettavano di essere rivelate.

Perché è dall’ascolto profondo di una musica che è sempre affiorato il testo, da quel ritmo fondamentale, conscia ad un certo punto che il ritmo, il primo elemento che mi aveva travolto verso la danza, precede e contiene il senso, la sua essenza.

Ma qualsiasi mezzo espressivo io abbia cercato, è sempre stato teso a carpire  il segreto delle virtù incantatorie dell’antico narratore orale, di un linguaggio che trae ispirazione non tanto dalla riflessione analitica, che giudica e tiene le cose a distanza, quanto dall’esperienza dell’incantamento, che avvolge, innamora, consente allo spettatore lo stato di grazia dello smemoramento. 

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